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Sostegno alle famiglie: anche familiari e partners di chi soffre di un problema psicologico hanno bisogno di aiuto. Quando un membro della famiglia (o il proprio partner) manifesta una problematica psicologica, ci si trova inevitabilmente a interrogarsi sulle proprie responsabilità e desiderio rispetto a come fornire aiuto. Se il familiare non è consapevole del proprio disturbo o se, nonostante riconosca di stare male, non desidera o |
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non ritiene necessario essere aiutato, la famiglia sperimenta disagio, frustrazione e soprattutto impotenza. In genere, ancora prima di parlarne con la persona interessata, si rivolge ad amici, conoscenti o a professionisti (soprattutto tramite web), alla ricerca di “un consiglio” rispetto a come intervenire. E di solito le risposte ricevute sono sempre le stesse: “la persona interessata, soprattutto se maggiorenne, deve essere motivata ad intraprendere un percorso terapeutico che, altrimenti, non sarebbe efficace”, o “non si può aiutare chi non desidera o non chiede aiuto”, o ancora “deve essere la persona che presenta il problema a richiedere l’intervento del professionista”. Di conseguenza la ricerca di aiuto da parte della famiglia si rivela il più delle volte inutile. C’è da aggiungere che anche quando il familiare sta effettuando un trattamento psicologico per le sue difficoltà, spesso gli altri membri si trovano in una situazione di completa disinformazione rispetto all’andamento della terapia, oltre che di dubbio e incertezza riguardo alla sua efficacia. Questo accade poichè, a meno che la persona interessata non ne dia specifico consenso, il professionista che esegue un trattamento terapeutico non può (secondo specifiche normative che regolano la professione), informare la famiglia sull’andamento di una terapia, violando il segreto professionale. Alla famiglia non rimane che attendere, impotente, l’esito della “cura” intrapresa dal familiare. Cosa può fare la famiglia che desidera partecipare in modo più attivo, per sostenere il familiare/partner? Sicuramente, nel caso in cui quest’ultimo non sia pienamente consapevole delle proprie difficoltà o della necessità di ricevere aiuto, può “ascoltare in maniera attiva”, ovvero osservare ed esprimere la propria opinione in merito a ciò che sta notando rispetto ad eventuali cambiamenti nel comportamento e stati emotivi della persona, sottolineando la propria disponibilità a sostenerla nel cercare aiuto. Anzichè consigliare con modalità comunicative spesso percepite come intrusive e svalutanti (quali: “ti consiglio di vedere uno psicologo per il tuo problema”), è di solito più utile ed efficace centrarsi su di sè comunicando al familiare/partner il proprio desiderio di stargli vicino (eventualmente anche nella ricerca stessa di un professionista), qualora fosse motivato a cercare aiuto. Quando invece il familiare sta già seguendo un trattamento e la famiglia desidera parteciparvi in maniera più attiva, può sicuramente chiedere feed-back al familiare rispetto a “come procede la terapia”....se ”ritiene di avere dei benefici”...se “desidera cercare un’alternativa”, piuttosto che tentare di informarsi presso il terapeuta del familiare, dal quale verrà inevitabilmente rifiutato, a meno che il professionista stesso, con il consenso del paziente maggiorenne, non ritenga opportuno il coinvolgimento della famiglia nel processo di terapia. E’ in genere molto utile per la famiglia, soprattutto qualora un suo membro che si trova in terapia rifiuti di coinvolgerla o informarla, consultare un professionista per essere sostenuta rispetto alle difficoltà della gestione e del rapporto con una persona che soffre di una problematica psicologica. La famiglia (o il partner) può cioè chiedere aiuto per sè con l’obiettivo di apprendere nuovi strumenti per attivare risorse adeguate nel far fronte alla situazione vissuta. Dott.ssa Ida Lopiano |
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