IL PROFILO COGNITIVO DELLE PERSONE AUTISTICHE Sommario: La correlazione con il ritardo mentale- Le abilità eccezionali- Le componenti del linguaggio- Le componenti sensomotorie- Le capacità cognitive elementari- Le abilità visuo-spaziali- Il pensiero astratto/concreto- Il pensiero analitico/olistico- La tolleranza/intolleranza dell'ambiguità- Le componenti cognitive della socializzazione- Risultati di una ricerca sul profilo cognitivo nell'autismo- Bibliografia Sin dalle prime osservazioni di Kanner (1943) è stata evidente la particolarità cognitiva dell’Autismo. Quello che segue è un tentativo di sistematizzazione delle considerazioni presenti in letteratura a questo proposito. Con il termine profilo cognitivo, in queste pagine si fà riferimento all’insieme delle peculiarità nella raccolta e nell’elaborazione delle informazioni. Tale concetto è intrinsecamente legato a quello di stile cognitivo. Dal precedente capitolo è emerso come la letteratura sullo stile cognitivo (e talvolta sugli stili cognitivi) sia contraddittoria e qualora alcuni modelli appaiano sovrapponibili non vengono di fatto eseguite delle integrazioni unitarie e coerenti. Dei tentativi in questa direzione sono stati, d’alto canto, intrapresi (Riding e Sadler-Smith, 1992; McKenny e Keen, 1974 cit. in Furnham, 1995; Furnham, 1995). Non essendovi uniformità nell’accezione di stile/i cognitivio/i, per gli scopi di questo lavoro, si è preferito impiegare una terminologia meno specifica. Il concetto di profilo cognitivo, in questo contesto, viene utilizzato per significare l’insieme delle capacità generali (memoria a breve termine, velocità mentale, etc.), delle capacità periferiche (abilità visiva, abilità di programmazione motoria, etc.) e, ad un differente livello logico, delle particolari modalità di raccolta ed elaborazione delle informazioni (stili cognitivi). La correlazione con il ritardo mentale La relazione tra ritardo mentale ed Autismo è stata ed è causa di accesi dibattiti. In passato, una fonte di confusione è stata la tendenza a ritenere l’Autismo un disturbo “puro”, ossia che non si riscontra in presenza di altre sindromi, quali appunto il ritardo mentale. Tager-Flusberg e Baron-Choen ritengono che la categoria di Autismo ad alto funzionamento sia usata per distinguere questa forma “pura” di Autismo da quella legata al ritardo mentale (Tager-Flusberg e Baron-Choen, 1993). Attualmente è accertata l’esistenza di ritardo mentale in circa il 70 % delle persone autistiche (Gillberg e Coleman, 1992: 32-33). Peeters mette in guardia da pericolose semplificazioni relative a questo dato: il rendimento cognitivo di persone con Autismo non può essere compreso correttamente se non alla luce delle peculiarità del suo profilo cognitivo. In altri termini, Peeters si chiede fino a che punto l’apparente ritardo mentale non è conseguenza di una incompresa diversità nella raccolta ed elaborazione delle informazioni (Peeters, 1994: 31-32). Andando oltre l’informazione sul QI delle persone con Autismo si scopre una interessante caratteristica: il rendimento nelle diverse abilità è disomogeneo (mentre le persone con ritardo mentale rendono allo stesso livello nelle diverse aree) (Peeters, 1994: 32-33). In un recente saggio di Francesca Happé (1999 cfr. sito A-99) viene sottolineato come sia maggiormente produttivo evidenziare le potenzialità piuttosto che i limiti delle caratteristiche cognitive delle persone con Autismo. Le abilità eccezionali Alcune persone autistiche presentano aree di abilità più sviluppate della norma. L’incidenza nell’Autismo di queste abilità eccezionali è del 10%, mentre nella popolazione generale è di 1%. Le aree in cui vengono abitualmente espresse le savant abilities sono: calcolo, prove di memoria (soprattutto memoria di date e calendari), abilità artistiche e musicali (Lovett, 1998 cfr. sito SFTAH). Per spiegare il fenomeno delle “savant abilities”, Rimland (cit. in Lovett, 1998 cfr. sito SFTAH) ipotizza una straordinaria capacità di focalizzare l’attenzione su una specifica e circoscritta area d’interesse. In alcuni casi di diminuzione dei sintomi autistici si è riscontrato una parallela diminuzione nelle isole di abilità. Secondo Temple Grandin (1996 cfr. sito CSA) questo declino potrebbe essere prevenuto con un semplice allenamento. Le componenti cognitive del linguaggio Lo sviluppo del linguaggio sembra essere intimamente legato allo sviluppo della teoria della mente del bambino: è stato ipotizzato che funzionalmente il linguaggio sia espressione, così come lo è la comprensione degli stati mentali altrui, della capacità metarappresentativa (Tager-Flusberg, 1993). Il linguaggio si sviluppa normalmente intorno al nono mese di vita. Non compare però improvvisamente: sono stati individuati alcuni atti comunicativi che precedono e fondano lo sviluppo della comunicazione verbale. Tager-Flusberg (1993) elenca tre comunicazioni intenzionali di tipo prelinguistico: routine sociali (come dire ciao o arrivederci), protoimperativi (atti usati per ottenere qualcosa) e protodeclarativi (atti usati per indicare un oggetto interessante). Proprio quest’ultimo tipo di comportamenti comunicativi sembra essere assente nelle persone con Autismo. Alcuni Autori leggono questo dato attraverso l’ipotesi di deficit nella joint-attention (Tager-Flusberg, 1993; Mundy e Kasari, 1993): le persone con Autismo non sono in grado di utilizzare uno “scambio triadico”, ossia una relazione a tre fra un osservatore interessato, una persona da coinvolgere nell’osservazione e l’oggetto dell’attenzione. In modo simile, i bambini autistici hanno problemi notevoli anche nel seguire lo sguardo di un’altra persona, anche quando questo è accompagnato da indicazione. E’ stato ipotizzato che a fondamento di questa mancanza vi fosse un deficit relativo al contatto oculare, oppure connesso con l’indicazione. Quest’ipotesi è stata esclusa dall’osservazione di un pressoché normale sviluppo di atti protoimperativi: contatto oculare e indicazione sono efficienti quando sono usati per ottenere un oggetto desiderato (Mundy et al., 1993). Vi sono altri aspetti significativi sul joint-attention deficit nell’Autismo. In primo luogo v’è la sua alta incidenza rispetto a questa sindrome: 94% per gli autistici low-functioning (Mundy et al., 1986 cit. in Mundy et al., 1993). Al contempo, è importante sottolineare che il joint-attention deficit è modificabile tramite opportuni contesti o stimoli sociali. Conseguentemente, gli Autori suggeriscono l’importanza di un intervento precoce di questo tipo (Lewy e Dawson, 1991 cit. in Mundy et al., 1993). Sono state date differenti interpretazioni della mancanza di atti protodeclarativi nell’Autismo. Hobson (1993) ha ipotizzato che le anomalie linguistiche delle persone con Autismo siano una diretta controparte dei disturbi nella socializzazione. Egli legge pertanto questo dato in connessione alle componenti affettive che contraddistinguono questa sindrome. Egli ritiene che i disturbi nell’area della comunicazione siano causati, nell’Autismo, dall’assenza di una propensione affettiva e relazionale verso le persone. In quest’ottica, la mancanza di comportamenti volti ad attirare l’attenzione , e più in generale l’assenza di una teoria della mente, costituirebbero una conseguenza dello scarso interesse emotivo verso le persone. Questa interpretazione ha ricevuto delle critiche basate sull’osservazione che normalmente i comportamenti volti al coinvolgimento dell’attenzione di altre persone è legato ad affetti positivi. Di contro, quando tali comportamenti sono messi in atto da persone con Autismo, è molto improbabile riscontrare un’affettività positiva, mentre nella prevalenza dei casi non si riscontra alcun tipo di affettività (Tager-Flusberg, 1993). Particolarmente significativo è che i comportamenti volti alla joint-attention sono un predittore del grado di sviluppo del linguaggio (Lewy e Dawson, 1991 cit. in Mundy et al., 1993). E’ inoltre rilevante che l’indicare sia ritenuto da Vigotskji (cit. in Hobson, 1993) un presupposto base della maturazione del linguaggio. Già dalle prime osservazioni di Kanner (1943) emerse una peculiarità del linguaggio nell’Autismo: l’inversione pronominale. All’interno dell’ipotesi sulla teoria della mente nell’Autismo, viene offerta una lettura di questo fenomeno. In linea con questo modello teorico, le affermazioni fatte dalle persone con Autismo sono distorte dalla incomprensione del duplice ruolo di parlante/ascoltatore. Da ciò deriva la tendenza a riprodurre le affermazioni del colloquiante: “vuoi mangiare?” al posto di “voglio mangiare” (Tager-Flusberg, 1993). Loveland e Tunali (1993), a seguito di una rassegna sugli stili narrativi, indicano le principali particolarità che ci si può attendere in narrazioni di individui autistici: a)scarsa comprensione dello stato di conoscenze dell’ascoltatore (parlare di cose a lui sconosciute come se egli ne fosse al corrente); b)mancanza di descrizione di pensieri, emozioni e motivazioni dei personaggi; c)scarsa attenzione al contesto sociale e culturale degli eventi. Del linguaggio, ed in particolare delle narrazioni, delle persone con Autismo si sono interessati anche Bruner e Feldman (1993). Questi Autori attribuiscono alle capacità di organizzare strutture narrative un ruolo fondamentale nella genesi delle anomalie sociali e relazionali delle persone autistiche sia low- che high-functioning. La loro ipotesi è che gli individui affetti da Autismo non riescono o non vogliono organizzare le informazioni sul mondo in schemi di narrazione, che seppur con diversità, universalmente sono utilizzate per la comprensione della realtà sociale (dal sé al riconoscimento delle emozioni altrui). Nel Disturbo di Asperger, differentemente che nell’Autismo tipo Kanner, le abilità verbali sono nettamente superiori alle abilità di performance (Lovett, 1998 cfr. sito SFTAH). Anche in questi casi, però, il linguaggio ha delle peculiarità significative: è difficile conversare, mentre è molto più probabile che lo scambio si trasformi in un monologo; si può dialogare prevalentemente su alcuni argomenti cui la persona con Autismo è particolarmente interessata (Tager-Flusberg, 1993). Per queste persone, secondo Bruner e Feldman, l’ipotesi di un disturbo nell’organizzazione narrativa degli eventi è ancor più evidente che nell’Autismo “classico”. Le loro abilità sono particolarmente significative in aree come problemi aritmetici e problemi fondati su ragionamenti causa-effetto; quando si tratta di dar conto degli eventi relazionali in contesti sociali, senza il supporto di competenze narrative, il risultato previsto è inadeguato o bizzarro. Le componenti senso-motorie Diversi Autori sostengono che la “comprensione” si fonda strutturalmente sulla “percezione”: è attraverso la raccolta ed elaborazione dei dati percettivi che viene conosciuta la realtà (White, 1989; Manning, 1989; Peeters, 1994: 31). Stankov et al. (1995), riprendendo la teoria di Cattell, sostengono che il rendimento cognitivo dipende non solo da intelligenza fluida (Gf) e cristallizzata (Gc), ma anche dalle cosiddette ‘provincial capacities’ che implicano le potenzialità percettivo-motorie indispensabili all’esecuzione di una prova. La constatazione delle anormalità sensoriali delle persone autistiche è quindi il presupposto per una diversità nello stile cognitivo: “ascoltano, sentono e vedono, ma il loro cervello tratta le informazioni diversamente” (Peeters, 1994: 31). In particolare Groden e Le Vasseur (1999 cfr. sito A-99) ritengono che il particolare funzionamento dei canali sensoriali contribuisca in modo determinante al quadro della Sindrome Autistica. Suoni, stimoli visivi e contatto fisico possono avere effetti paradossali per individui affetti da Autismo. Le capacità cognitive elementari In questa sindrome sembrano esservi anche dei problemi strettamente connessi con l’attenzione. In una recente conferenza indetta dalla National Autistic Society britannica, Philip Graves (cfr. sito A-99) riporta una serie di ricerche da cui si evince che la relazione fra Autismo e deficit dell’attenzione è stata trascurata o riportata marginalmente, senza un approfondimento del ruolo svolto dal deficit attentivo nell’eziologia e nella patogenesi della Sindrome Autistica. Grandin cita un esperimento da cui risulta che le persone con Autismo hanno una notevole difficoltà a spostare l’attenzione tra stimoli uditivi e visivi (Courchesne et al., 1989 cit. in Grandin, 1996 cfr. sito CSA). Questo scarso controllo dei processi attentivi è probabilmente alla base dei comportamenti stereotipati tipici di questa sindrome. Murray e Lesser (1999 cfr. sito A-99) affermano che il computer costituisce l’ambiente ideale per promuovere comunicazione, socializzazione e creatività nelle persone con Autismo. Infatti, una problematica dell’Autismo è di dover fronteggiare diversi stimoli e canali percettivi contemporaneamente: l’uso di computer, invece, non richiede spostamenti dell’attenzione. La relazione fra intelligenza e memoria è stata studiata da molti Autori. In particolare, nell’Autismo, sono stati riscontrati dei deficit della memoria per eventi recenti (Boucher, 1981 cit. in Gillberg e Coleman, 1992: 31). Le abilità visuo-spaziali Nelle prove della WISC, le persone affette da Autismo, mostrano una serie di notevoli sbalzi fra prestazioni ottime e scadenti. Ottengono risultati elevati in prove visuo-spaziali, mentre in test associati al linguaggio ed in quelli relativi a intuizione/empatia le loro prestazioni sono estremamente basse (Gillberg e Coleman, 1992: 31). Lovett, (1998 cfr. sito SFTAH) riferisce di una ricerca da cui risulta che l’informazione visiva sia più facilmente elaborata dalle persone autistiche. Tale peculiarità prende il nome di pensiero visivo, ed è posta in contrapposizione al pensiero verbale, che utilizza prevalentemente le parole. Il pensiero astratto/concreto A parità di Età Mentale, rispetto a bambini normali o con ritardo, ottengono migliori risultati nella discriminazione concreta. Di contro, nella discriminazione formale, le loro performance sono scadenti (Gillberg e Coleman, 1992: 31). Questa caratteristica è stata anche definita come difficoltà a riassumere le informazioni complesse deducendone gli aspetti salienti e le regole che le sottendono. A parità di EM, persone autistiche e non-autistiche ottenevano analoghi risultati in prove di memoria di parole non collegate fra loro: cane, mamma, albero, divano, libro, piatto. Un risultato differente era ottenuto con parole collegate fra di loro: mela, uva, pompelmo, aereo, bicicletta, automobile (ossia parole appartenenti a due categorie).Le persone con Autismo non traggono vantaggio, a differenza dei non-autistici, dalla possibilità di organizzare in categorie gli elementi da ricordare (Peeters, 1994: 37-39). Questo non andare oltre le informazioni immagazzinate, individuando regole e ridondanze che le sottendono, è alla base del cosiddetto “vivere alla lettera” (Peeters, 1994: 37-39). Anche nel gioco è possibile rintracciare questi aspetti del profilo cognitivo nell’Autismo. Nello sviluppo del gioco è possibile distinguere tre fasi: g. sensomotorio (basato sulla manipolazione, sulla conoscenza percettiva), gioco funzionale (utilizzo degli oggetti in base a ciò che per essi viene previsto) e gioco simbolico (un oggetto può essere usato per rappresentarne un altro qualsiasi). Il gioco dei soggetti autistici non raggiunge mai il terzo livello, appunto quello del gioco simbolico (Baron-Choen, 1993). Una ripercussione di questa particolarità sono alcune incomprensioni sociali, in particolare riguardo al non-verbale. E’ possibile distinguere gesti strumentali e gesti espressivi: i primi sono direttamente connessi con il significato: spingere via una persona vuol dire che non se ne gradisce la compagnia. Invece, i gesti espressivi, come la pacca sulla spalla, non contengono in sé il significato di cui sono portatori, ma sono maggiormente dipendenti dall’apprendimento sociale (Peeters, 1994: 40-43). Inoltre, a questa inflessibilità del pensiero si possono collegare altre caratteristiche del comportamento autistico come la difficoltà nell’uso di parole relazionali (alto/basso, grande/piccolo,etc.) e l’incomprensione delle metafore (Peeters, 1994: 72-79; Volkmar e Klin, 1993). Anche Harris (1993) ipotizza l’esistenza di una difficoltà cognitiva nel ragionamento ipotetico, soprattutto quando questo va contro i dati immediatamente disponibili: l’assenza di gioco simbolico deriverebbe dal non riuscire a fare come se il tavolo fosse una tenda, visto che è “così evidente” che esso è un tavolo. Il pensiero analitico/olistico Come discusso precedentemente, la letteratura concernente lo stile cognitivo propone nomenclature distinte per modelli teorici parzialmente sovrapponibili (Furnham, 1995; Riding e Sadler-Smith, 1992). Nel presente lavoro si fà riferimento alla definizione dello stile olistico/analitico proposta da Riding e Sandler-Smith (1992). A questo stile cognitivo sono però accostabili il modello di McKenny e Keen (1974 cit. in Furnham, 1995), la dimensione narrow/extensive scanner di Gardner e Long (1962, cit. in Furnham, 1995), la distinzione tra strategie algoritmiche/euristiche proposta da Miller, Galanter e Pribram (1960 cit. in Shouksmith, 1970: 95-97). Una interessante analogia è quella proposta da Silverman (1989) tra lo stile olistico/analitico e la dipendenza/indipendenza dal campo. Non vi è un completo accordo sull’appropriatezza di questo collegamento (Kaplan, 1989). La modalità di ragionamento comporta l’elaborazione logico-sequenziale delle informazioni. Essa è connessa con l’impiego di procedure algoritmiche nella risoluzione dei problemi: vengono cioè prese in considerazioni tutte le possibili soluzioni prima di scegliere quella da impiegare. L’efficacia di questa strategia si contrappone, nei casi più complessi, alla sua efficienza: non sempre è economico analizzare tutte le alternative che si hanno a disposizione. Differentemente, l’elaborazione di tipo olistico delle informazioni, più legata ad una visione sintetica e unitaria piuttosto che dettagliata ed analitica, utilizza modalità euristiche per la soluzione di problemi: non vengono prese in considerazioni tutte le alternative, ma un ristratto numero scelto in base a colleagamenti con precedenti esperienze simili. Frith (1996 cfr. sito VCAE) sostiene che le persone con Autismo utilizzino più agevolmente il pensiero olistico. La tolleranza/intolleranza dell’ambiguità Come è stato sottolineato da Furnham (1995), la tolleranza/intolleranza dell’ambiguità, oltre ad essere rilevante per lo studio della personalità, ha importanti implicazioni sul profilo cognitivo. Difatti, secondo questo Autore, la tolleranza per l’ambiguità implica una maggiore disponibilità ad analizzare stimoli e problemi nuovi. Di contro, l’intolleranza per l’ambiguità comporta maggiori difficoltà nell’affrontare compiti cui non si è abituati. Coerentemente con queste osservazioni, una delle note distintive dell’Autismo è la tendenza a preservare l’identità degli ambienti e la difficoltà ad affrontarne di nuovi (vedi per esempio Lovett, 1998 cfr. sito SFTAH). Le componenti cognitive della socializzazione Quello delle competenze sociali è senz’altro uno degli ambiti più deficitari all’interno della Sindrome Autistica (Wellman, 1993). E’ stato constatato che con la crescita vi è generalmente un progresso nelle abilità sociali, sebbene la vita sociale di queste persone rimane contraddistinta da profonde difficoltà ed anormalità relazionali (Volkmar e Klin, 1993). Gli individui con sindrome di Asperger sono più consapevoli della realtà sociale rispetto a quelli con Autismo classico. D’altro canto, i loro comportamenti sono molto spesso inappropriati (Lovett, 1998 cfr. sito SFTAH). In passato le abilità sociali erano ritenute una diretta espressione dell’ EM: le competenze relazionali erano in teoria espressione delle abilità cognitive generali. Attualmente, secondo Volkmar e Klin (1993), vi è accordo nel considerare queste abilità relativamente indipendenti. Merita attenzione anche il ruolo che le diversità cognitive giocano nello sviluppo dei disturbi della socializzazione (Grandin, 1996 cfr. sito CSA). Risultati di una ricerca sul profilo cognitivo nell’autismo Alcuni scritti di persone con autismo ad alto funzionamento sono stati analizzati alla luce delle ipotesi sino a questo punto delineate. Quella che segue è una sintesi di tale studio. L’analisi dei testi ha mostrato una caratterizzazione particolare del profilo cognitivo delle persone con Autismo. Le anomale capacità cognitive elementari (durata, controllo e spostamento dell’attenzione, capacità della memoria a breve termine), insieme ai disturbi percettivo-motori sono riconducibili, in una causalità circolare, ad un particolare profilo cognitivo. Coerentemente con queste caratteristiche, infatti, sono evidenziabili la preferenza per modalità visive di raccolta ed elaborazione delle informazioni: il pensiero visivo non richiede ampio utilizzo di memoria a breve termine, che risulta indispensabile per il pensiero verbale. La preferenza per il pensiero concreto risulta essere espressione di una difficoltà a generalizzare e ad astrarre. Entrambe queste capacità dipendono dalla possibilità di organizzare il pensiero in modo sequenziale piuttosto che associativo (tipico del pensiero per immagini). Inoltre, gli aspetti sopra evidenziati sono parte integrante dello stile olistico di raccolta ed elaborazione delle informazioni, pure questo correlato con la difficoltà nella sequenzialità e con la preferenza per una visione d’insieme. L’intolleranza dell’ambiguità e le difficoltà nella socializzazione, ad un livello logico superiore, potrebbero essere una conseguenza delle difficoltà ad astrarre le regole a partire dalle proprie esperienze. Di qui la preferenza di altre modalità interattive, quali gli scambi di e-mail e l’utilizzo di mailing-lists. Bibliografia -American Psychiatric Association (APA) (1994) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders- Fourth Edition. -American Psychological Association (APA) (1994) Resolution on Facilitated Communication. -Baron-Choen S., Tager-Flusberg H. e Choen D. (1993) Understanding Other Minds: Perspective from Autism. Oxford University Press. -Benenzon R.O. (1986) O Autismo, a Familia, a Itituicao e a Musicoterapia. Enelivros. 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